Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

 

Il 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito questa giornata il 17 dicembre 1999.

La data scelta, il 25 novembre, non è casuale ma costituisce la ricorrenza di un brutale assassinio avvenuto nel 1960, nella Repubblica Dominicana, dove le tre sorelle Mirabal, considerate rivoluzionarie, vennero torturate e uccise.

Secondo l’Articolo 1 della Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, emanata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1993, la violenza contro le donne è “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

Parliamo dunque di violenza di genere, ossia di violenza agita da uomini contro donne in ragione del loro essere tali.

Si tratta, purtroppo, di un fenomeno capillarmente diffuso in ogni parte del mondo, o quasi, e il massimo impegno da parte della comunità internazionale nella direzione di una sua eradicazione è fondamentale e imprescindibile.

In molte parti del mondo, infatti, esiste ancora una profonda disparità sul piano giuridico tra i due generi e queste sono sicuramente le situazioni più gravi e tragiche.

Tuttavia, anche nei Paesi più evoluti, caratterizzati da ordinamenti giuridici che sanciscono sulla carta la parità tra donne e uomini, continua a permanere un assetto culturale che, veramente duro a morire, sembra ancora mantenere solide le basi che portano ad una più o meno marcata asimmetria di genere sul piano concreto.

Nell’immaginario collettivo prevalgono ancora idee stereotipate di che cosa significhi essere una donna, piuttosto che essere un uomo, unitamente alla convinzione che esista una precisa “gerarchia” tra i due generi in vari ambiti.

Giusto per fare qualche esempio, apparentemente innocente e innocuo, pensiamo alla tendenza da parte di non poche donne a preferire la declinazione al maschile, ove la nostra lingua ne preveda anche una al femminile, della propria professione (direttore, consigliere, ministro, sindaco, “il” presidente, ma anche ricercatore, ingegnere, magistrato, avvocato, professore ordinario, ecc…). E’ molto probabile che tale preferenza sia legata alla convinzione, più o meno consapevole, che il maschile garantisca maggior prestigio e maggior autorevolezza alla figura professionale stessa.

Alcune ricerche condotte in ambito psicologico ci consegnano, però, elementi che mostrano come, inevitabilmente, venga così a generarsi un vero e proprio circolo vizioso con effetto boomerang per cui, di fatto, viene interiorizzata, in maniera quasi inconsapevole, la minore autorevolezza di una figura femminile rispetto ad una maschile. Si rafforza l’immaginario sociale di un modello maschile maggiormente meritevole di stima e fiducia in molti ambiti professionali.

In effetti, la cosa non stupisce molto. Pensiamo ad una bambina (o un bambino) che chieda ad una figura adulta (la madre, il padre, un/a insegnante…) come mai si usi l’appellativo maschile, o talvolta anche solo l’articolo maschile, per indicare una donna che fa la direttrice o la presidente e che la persona adulta in questione risponda: ”perché il suo è un ruolo istituzionale” o qualcosa del genere. Perché i ruoli istituzionali dovrebbero essere “maschili”? Che genere di convinzione si andrà a sedimentare nella testa di quella bambina (o di quel bambino)?

Oltre alla questione della declinazione delle professioni che ancora genera acerrime diatribe tra “fazioni” opposte, proviamo a fare qualche altro esempio di convinzioni stereotipate legate al genere:

  • si dà molta più importanza all’aspetto fisico delle donne che a quello degli uomini;
  • si dà molta più importanza al reddito di un uomo che a quello di una donna;
  • si tende a pensare che l’esasperato decisionismo tipico di una certa maschilità sia una qualità positiva, naturale;
  • una donna decisionista viene spesso giudicata come bisbetica, eccessivamente autoritaria o con un caratteraccio;
  • alle bambine si insegna, di solito, ad essere empatiche, dolci, a ricercare l’approvazione degli altri, a rispettare le regole, a non “esagerare”; se dicono inavvertitamente una parolaccia ci si indigna o ci si imbarazza;
  • i bambini (maschi) vengono incentivati ad essere più “trasgressivi”, indipendenti, coraggiosi, curiosi, individualisti; se dicono inavvertitamente una parolaccia ci si fa una risata o si fa spallucce;
  • a parità di comportamento, un uomo può essere ritenuto assertivo e una donna aggressiva;
  • un papà che si prende cura dei suoi figli, accudendoli, viene apostrofato come “mammo”.

Quelli menzionati sono solo alcuni degli innumerevoli esempi che ci mostrano che le credenze stereotipate esistono, sono molto diffuse e, spesso, vengono interiorizzate in maniera inconsapevole anche dalle persone più “evolute”.

Gli stereotipi legati al genere sono, appunto, quelli che ci fanno giudicare il medesimo comportamento da parte di una persona in maniera differente a seconda del genere di quest’ultima. Insomma, la società ha, ed alimenta, delle aspettative diverse sulle donne e sugli uomini.

Qualcuno potrebbe ancora chiedersi perché questo debba necessariamente rappresentare un problema. Perché conduce a ingiustizie e squilibri sociali; perché pone le basi di discriminazioni immotivate e dannose;  perché limita la libertà delle persone di esprimere e realizzare appieno sé stesse.

Più che educare i giovani uomini al “rispetto delle donne” (concetto che, talvolta, sembra quasi stigmatizzare le donne come fossero una specie da proteggere perché “debole” o “minorata”), bisognerebbe che la società tutta prendesse consapevolezza che la prevaricazione, il bisogno di dominio, il controllo non sono opzioni accettabili per un uomo più di quanto lo siano per una donna: non sono accettabili e basta!

E’ tremendamente ipocrita e forse, onestamente, anche del tutto inutile parlare di “rispetto per le donne”, quando si continuano a perpetrare dannosi stereotipi che vorrebbero attribuire, in maniera più o meno netta, determinate caratteristiche alle persone sulla sola base del loro genere.

Il nascere maschio non dovrebbe implicare, in alcun modo, una maggior indulgenza di giudizio a parità di comportamenti: aggressività, mancanza di sensibilità e di empatia, smania di successo personale, prevaricazione non devono essere tollerate maggiormente in uomo in nome di una fantomatica “inclinazione naturale” di genere. Anche perché, se così davvero fosse, si starebbero ponendo serie basi per affermare che un uomo sia per natura una persona peggiore. O no??

Finché la società tutta non porterà i maschi a diventare persone “libere” da una certa “mascolinità tossica”, ossia a diventare persone che non sentono il bisogno di prevaricare chi sta in relazione con loro, che non hanno la smania di primeggiare e di esercitare forme di dominio e coercizione su altri esseri umani, che non hanno bisogno di sentirsi “superiori” alle donne per avere stima di sé, finché non accadrà tutto questo le esortazioni al “rispetto delle donne” rischiano di svuotarsi di senso e di sostanza.

Se è vero che non tutti gli uomini sono dei potenziali assassini (o stupratori, o picchiatori, o vessatori, ecc…) è altrettanto vero che tutti gli uomini crescono in una società fortemente connotata da un sistema valoriale di tipo “patriarcale” che, di fatto, pone le basi di un certo modo di essere uomo.

Questo spiega perché violenza e discriminazioni di genere siano strutturali e diffuse in ogni ambito della nostra società.

Se vogliamo sperare che calino un giorno il numero di femminicidi, il numero di stupri e gli abusi di ogni genere nei confronti delle donne, non possiamo che non affrontare il problema mettendo lucidamente a fuoco, senza più alibi, quelle che sono le sue cause strutturali.

Certamente, di fronte ad una situazione emergenziale come quella in cui ci troviamo, le leggi devono tutelare ed aiutare in ogni modo possibile le vittime. Tutte e tutti noi abbiamo il dovere di non tacere quando vediamo o intuiamo situazioni potenzialmente pericolose.

Senza una vera presa di coscienza sugli aspetti culturali di cui abbiamo parlato, però, una vera inversione di marcia non sarà forse mai possibile. E’ necessario il massimo impegno in tal senso da parte della politica, della scuola, delle famiglie e di ogni altra agenzia di educazione se vogliamo sperare di arrivare ad avere una prevalenza di persone, donne e uomini, in grado di vivere la loro realizzazione personale e le loro relazioni sentimentali in maniera consapevole e libera dall’influenza di discriminazioni e di dinamiche abusanti.

 V.D.

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

Stanno facendo molto discutere le recenti dichiarazioni della stilista e imprenditrice (anche se lei si definisce “imprenditore”) Elisabetta Franchi, la quale durante un intervento ad un evento organizzato da PWC e Il Foglio (https://www.open.online/2022/05/07/elisabetta-franchi-donne-manager-polemica-video/), ha affermato di aver a lungo riservato i ruoli chiave all’interno della sua azienda ai soli uomini, per arrivare, poi, in un secondo momento, a decidere di aprire anche alle donne, ma soltanto a quelle di una certa età e questo non per la loro maggiore esperienza in ambito professionale rispetto alle più giovani, bensì perché “è il solo modo per evitare in sostanza danni economici, perché a quell’età le donne: «sono già sposate, hanno già avuto figli o si sono già separate»...”, dopo quell’età le donne possono, nella sua azienda, lavorare con lei h 24 (evidentemente, è questo che lei richiede ai suoi “ruoli chiave”).

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

Diventata la responsabile delle pagine culturali di Repubblica dopo l’uscita di Enzo Golino dal giornale, Rosellina Balbi aveva studiato a Napoli al liceo Umberto I negli stessi anni del giovane Giorgio Napolitano e poi aveva iniziato a lavorare alla gloriosa rivista Nord e Sud di Francesco Compagna, suo amico del liceo.
 Sempre attenta e sensibile ai temi riguardanti la società e il mondo circostante, ha affrontato e descritto alcuni argomenti prima di molti altri colleghi, comprendendo con largo anticipo che alcune questioni come la paura e l’intolleranza, per esempio, sarebbero state tra i temi principali degli anni a venire. E su questi temi ha scritto due libri da ricordare: "Madre paura" e "All’erta siam razzisti".

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

Da dove dovrebbe iniziare la ricostruzione di un paese se non dalla scuola?

Il problema attuale rispetto all’istituzione scuola non è solo quello relativo alla comunicazione delle decisioni ministeriali legate alla sicurezza, che disorientano per il loro carattere confusivo e di discontinuità. Il problema della scuola è un problema di pensiero, un problema esistente già prima dell’avvento della pandemia. La scuola ha bisogno di una rivoluzione culturale, legata al sapere, legata al senso critico, legata all’umano e al senso di civiltà. Valori che dovrebbero essere tramandati da una generazione all’altra attraverso la formazione, il desiderio dell’insegnante e il dialogo tra scuola e famiglia.  

Non dobbiamo pensare dunque alla scuola come a un grande asilo sociale dove vengono parcheggiati i nostri giovani, in attesa che il mercato operi la selezione naturale. Dovremmo pensare alla scuola come ad uno spazio eticamente e culturalmente decisivo in cui si educhi alla cultura dell’integrazione, dello scambio e della ricerca cooperativa, aprendo altresì a prospettive e discorsi altri da quelli dominanti anche in relazione a temi delicati come quelli dell’affettività e della sessualità.  

La scuola in questo tempo della pandemia è rimasta schiacciata ed è proprio dalla presa di consapevolezza del fallimento istituzionale che la pandemia ha messo in risalto che si dovrebbe ripartire integrando l’esperienza pandemica nel vissuto di alunni, insegnanti e famiglie. Ripartire dalla scuola significa convocare e dialogare tra docenti, dirigenti scolastici, associazioni di insegnanti, associazioni culturali, sindacati, comitati dei genitori; pensare ad una ripartenza delle istituzioni dal basso, attraverso l’ascolto e la parola, partendo dalle esperienze sul campo di insegnanti, educatori, psicologi, genitori, personale ATA, alunni.

La situazione creatasi durante il lockdown, ma presente anche oggi dal punto di vista sociale, rivela, come indica lo psicoanalista Massimo Recalcati, i due volti che il virus incarna: il volto di Darwin e il volto di Marx.

Perché Darwin? Perché l’epidemia ha colpito i più deboli. Si è verificata una vera e propria selezione naturale a livello fisiologico, un’intera generazione, quella anziana, quella più fragile, è decimata.

Come psicologa che ha prestato in modo volontario la sua professione per il paese di cui sono originaria, Nembro, in provincia di Bergamo, nei mesi del primo lockdown, testimonio la decimazione di un’intera generazione. Persone che hanno costruito la storia del paese grazie al loro impegno per la comunità, sono perite d’innanzi alla feroce selezione naturale del virus Covid-19. Molte sono state le persone alla quale ho offerto uno spazio virtuale d’ascolto a seguito della perdita dei propri cari.

Tuttavia ancora più cinici del virus sono stati i ragionamenti consci e inconsci delle persone che aderendo ad una visione della vita biologico-evolutiva hanno pensato: <<Meglio i più anziani che i giovani>>, quando la vita è sacra e va difesa al di là del sesso, della razza e dell’età fisiologica. Non solo il virus è darwiniano e opera per selezione naturale, ma anche il pensiero del senso comune contemporaneo è un pensiero cinico che rispecchia il discorso della macchina del sistema-capitalista, in cui il valore della vita viene spesso misurato in una logica esclusivamente di mercato. Ecco che la persona più anziana, in questa visione, risulta essere un soggetto che può esser sacrificato. Non accade ciò in popolazioni in cui a governare la società non è il discorso capitalista, ma comunità organizzate su logiche meno individualiste, dove l’anziano detiene un potere di narrazione mitologica e testimonianza di vita tra una generazione e l’altra. Nella nostra società contemporanea abbiamo infatti una difficoltà nella trasmissione del desiderio, di storie, da una generazione all’altra, compito che la scuola, nella sua funzione di trasmissione del sapere, dovrebbe ritornare a svolgere.

L’altro volto che il virus ha messo in risalto, riprendendo le suggestioni dello psicoanalista Massimo Recalcati, è quello di Marx. Perché Marx? Covid-19 ha mostrato una verità di fondo, incontrovertibile, del ragionamento marxista: nel sistema capitalista gli esseri umani sono diversi e hanno diritti diversi in base al loro reddito. Il recente rapporto dell’Istat ha confermato purtroppo l’oggettività spietata di questa tesi: non solo la perturbazione economica scatenata dal virus ha diffuso povertà, ma la stessa malattia ha fatto maggiori vittime tra le persone più umili, povere ed escluse.

A dimostrazione lampante che il virus non è stato affatto democratico, ma ha enfatizzato le condizioni di diseguaglianza sociale. È scontato constatare che il confinamento al quale siamo stati costretti non sia stato affatto uguale per tutti. Diverso è stato trascorrere la quarantena in condizioni di privilegio e di relativa serenità per l’avvenire, che non in condizioni di povertà e di preoccupazione angosciata per il proprio futuro. Anche su questo Marx ha espresso verità difficilmente confutabili: per coloro che vivono con l’acqua alla gola, una situazione di crisi non è mai un’occasione di rinnovamento, ma una complicazione tragica che può comportare l’annegamento.

Come clinica, al di là della lettura sociologica, avendo lavorato con adolescenti di scuole professionali e di licei, ho constatato la grande differenza di reazione sintomatica al lockdown da parte di ragazzi appartenenti a classi sociali differenti. Paradossalmente ragazzi con situazioni sociali e famigliari difficili hanno attivato grandi risorse relazionali soprattutto nei momenti di didattica online, in cui la scuola diventava per loro un luogo di vita e d’incontro degli insegnanti e compagni, separandoli da un clima famigliare difficile e patologico. Mentre adolescenti frequentanti licei hanno manifestato sintomi d’ansia e angoscia maggiore rispetto all’andamento scolastico della didattica on-line, con maggior ansia rispetto alle prestazioni didattiche e alla preparazione ad esempio per l’esame di maturità. Diversi ragazzi ho seguito e condotto verso l’esame di maturità, un esame inaugurato e raccontato senza l’ultimo suono della campanella, senza la “pizzata” e la gita del quinto anno, un esame sotto copertura on-line e famigliare in un clima difficile per l’adolescente.

Il punto in comune trasversale che ha accumunato l’adolescenza durante tutto il periodo pandemico è stato l’incontro con la scuola attraverso la didattica online, vissuta come uno spazio d’incontro con l’altro in cui potersi narrare e ritrovare meno soli. La didattica on-line, seppur è una didattica senza corpo e dunque poco incisiva sul piano dell’apprendimento, ha tuttavia lasciato i ragazzi meno soli, offrendo loro la possibilità di separazione in un luogo seppur virtuale ma in cui la parola, nonostante l’assenza di corpo, ha comunque svolto la propria funzione simbolica: dare un senso al di là della morte, dell’abbandono e della solitudine.

Da clinici sappiamo come nel periodo adolescenziale si ricerchi profondamente il gruppo dei pari, il bisogno di contatto e il sentirsi appartenere ad una collettività. L’adolescenza è profondamente traumatica in quanto risveglia non solo il corpo fisiologico, ma anche il corpo pulsionale in cui l’irrisolto o le difficoltà dell’infanzia riemergono gettando i ragazzi in un clima d’angoscia e d’abbandono. Emozioni tipiche di quell’arco di vita, che durante il lockdown si sono amplificate negli adolescenti, in assenza di quei ritmi che la quotidianità e la ritualità del suono della campanella imponevano. Così i ragazzi, oltre alle lezioni didattiche, insieme ai quei pochi docenti resistenti al sistema, hanno avuto la possibilità di vivere e desiderare la scuola proprio in quanto mancante.

La didattica on-line con gli adolescenti, nei suoi contro e nei suoi pro, ha permesso di dare uno spazio attraverso il dispositivo tecnologico scolastico, diventando un modo per ritornare a ritualizzare gli spazi legati al sapere, all’incontro con i compagni e con i propri docenti. Ovviamente una didattica senza corpo, ma solamente virtuale può risultare meno incisiva rispetto alla didattica in presenza, ma come psicoanalisti sappiamo bene che a muovere la curiosità, l’incontro, il sapere, è la posizione di desiderio che l’adulto incarna e trasmette attraverso la parola e i suoi gesti.

Dunque se la scuola vuole ripartire, deve ripartire dagli insegnanti e dal suo personale che non possono esser ridotti ad adepti del controllo degli allievi al servizio della massima sicurezza. Gli insegnanti e la scuola dovrebbero aiutare gli alunni ad interiorizzare certe regole civili e sociali, partendo proprio dall’esperienza soggettiva di ogni ragazzo e ragazza vissuta durante il periodo di chiusura delle scuole. Solo partendo dall’ascolto da parte dell’altro significativo, dall’esempio incarnato nel desiderio dell’adulto e dallo spazio per la parola, saranno possibili la rielaborazione di un trauma collettivo e l’interiorizzazione della regola sociale ai fini di un maggior senso di responsabilità e civiltà.

Da psicologa, come fare attivo e pratico nell’istituzione scuola, rinforzerei la costruzione di logiche didattiche che aiutino l’apprendimento partendo proprio del reale traumatico che ha toccato i ragazzi attraverso l’apertura di spazi d’ascolto da estendere all’intera istituzione scuola, dagli allievi, ai docenti, dagli educatori, al personale ATA. Pensare l’istituzione scuola significa ridare voce e pensiero critico partendo dalle minoranze, dal basso delle relazioni, dalla circolazione di differenti discorsi, ma soprattutto ripensando la scuola nella sua funzione di crescita formativa, di pensiero e umana.

Dott.ssa Delia Moraschini, psicologa

https://www.facebook.com/dott.ssadeliamoraschini

Valutazione attuale: 2 / 5

Stella attivaStella attivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

Secondo un'indagine del "PewReseach Center", effettuata nel 2017, in Italia ci sono circa 2.870.000 musulmani.
Una cifra abbastanza considerevole, soprattutto se osserviamo che, sempre secondo il P.R.C., essi corrispondono al 4,8 % dell'intera popolazione italiana. Le prevalenti nazioni di origine sono Tunisia, Egitto, Marocco, Pakistan e Bangladesh.

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva

Intervista a Edith Bruck in occasione dell’uscita del suo libro "SIGNORA AUSHWITZ" pubblicato da Marsilio

- Lei ha scritto nel volume SIGNORA AUSCHWITZ: “la mia obbedienza a coloro che avevo ascoltato, guardato morire, dura da oltre mezzo secolo: con le testimonianze che sono contenute nella maggior parte dei miei libri e la mia presenza, soprattutto nelle scuole, ovunque fossi stata invitata, citata, interrogata nella veste di sopravvissuta ad Auschwitz. Veste che portavo come fosse stata su misura e ritenevo questo normale, naturale, giusto quasi come fossi un soldato animato di dovere…

  • Email: info@visionedonna.blog

Segui i nostri social

Il nostro team

Search

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più riguardo i cookie vai ai dettagli.