Da dove dovrebbe iniziare la ricostruzione di un paese se non dalla scuola?
Il problema attuale rispetto all’istituzione scuola non è solo quello relativo alla comunicazione delle decisioni ministeriali legate alla sicurezza, che disorientano per il loro carattere confusivo e di discontinuità. Il problema della scuola è un problema di pensiero, un problema esistente già prima dell’avvento della pandemia. La scuola ha bisogno di una rivoluzione culturale, legata al sapere, legata al senso critico, legata all’umano e al senso di civiltà. Valori che dovrebbero essere tramandati da una generazione all’altra attraverso la formazione, il desiderio dell’insegnante e il dialogo tra scuola e famiglia.
Non dobbiamo pensare dunque alla scuola come a un grande asilo sociale dove vengono parcheggiati i nostri giovani, in attesa che il mercato operi la selezione naturale. Dovremmo pensare alla scuola come ad uno spazio eticamente e culturalmente decisivo in cui si educhi alla cultura dell’integrazione, dello scambio e della ricerca cooperativa, aprendo altresì a prospettive e discorsi altri da quelli dominanti anche in relazione a temi delicati come quelli dell’affettività e della sessualità.
La scuola in questo tempo della pandemia è rimasta schiacciata ed è proprio dalla presa di consapevolezza del fallimento istituzionale che la pandemia ha messo in risalto che si dovrebbe ripartire integrando l’esperienza pandemica nel vissuto di alunni, insegnanti e famiglie. Ripartire dalla scuola significa convocare e dialogare tra docenti, dirigenti scolastici, associazioni di insegnanti, associazioni culturali, sindacati, comitati dei genitori; pensare ad una ripartenza delle istituzioni dal basso, attraverso l’ascolto e la parola, partendo dalle esperienze sul campo di insegnanti, educatori, psicologi, genitori, personale ATA, alunni.
La situazione creatasi durante il lockdown, ma presente anche oggi dal punto di vista sociale, rivela, come indica lo psicoanalista Massimo Recalcati, i due volti che il virus incarna: il volto di Darwin e il volto di Marx.
Perché Darwin? Perché l’epidemia ha colpito i più deboli. Si è verificata una vera e propria selezione naturale a livello fisiologico, un’intera generazione, quella anziana, quella più fragile, è decimata.
Come psicologa che ha prestato in modo volontario la sua professione per il paese di cui sono originaria, Nembro, in provincia di Bergamo, nei mesi del primo lockdown, testimonio la decimazione di un’intera generazione. Persone che hanno costruito la storia del paese grazie al loro impegno per la comunità, sono perite d’innanzi alla feroce selezione naturale del virus Covid-19. Molte sono state le persone alla quale ho offerto uno spazio virtuale d’ascolto a seguito della perdita dei propri cari.
Tuttavia ancora più cinici del virus sono stati i ragionamenti consci e inconsci delle persone che aderendo ad una visione della vita biologico-evolutiva hanno pensato: <<Meglio i più anziani che i giovani>>, quando la vita è sacra e va difesa al di là del sesso, della razza e dell’età fisiologica. Non solo il virus è darwiniano e opera per selezione naturale, ma anche il pensiero del senso comune contemporaneo è un pensiero cinico che rispecchia il discorso della macchina del sistema-capitalista, in cui il valore della vita viene spesso misurato in una logica esclusivamente di mercato. Ecco che la persona più anziana, in questa visione, risulta essere un soggetto che può esser sacrificato. Non accade ciò in popolazioni in cui a governare la società non è il discorso capitalista, ma comunità organizzate su logiche meno individualiste, dove l’anziano detiene un potere di narrazione mitologica e testimonianza di vita tra una generazione e l’altra. Nella nostra società contemporanea abbiamo infatti una difficoltà nella trasmissione del desiderio, di storie, da una generazione all’altra, compito che la scuola, nella sua funzione di trasmissione del sapere, dovrebbe ritornare a svolgere.
L’altro volto che il virus ha messo in risalto, riprendendo le suggestioni dello psicoanalista Massimo Recalcati, è quello di Marx. Perché Marx? Covid-19 ha mostrato una verità di fondo, incontrovertibile, del ragionamento marxista: nel sistema capitalista gli esseri umani sono diversi e hanno diritti diversi in base al loro reddito. Il recente rapporto dell’Istat ha confermato purtroppo l’oggettività spietata di questa tesi: non solo la perturbazione economica scatenata dal virus ha diffuso povertà, ma la stessa malattia ha fatto maggiori vittime tra le persone più umili, povere ed escluse.
A dimostrazione lampante che il virus non è stato affatto democratico, ma ha enfatizzato le condizioni di diseguaglianza sociale. È scontato constatare che il confinamento al quale siamo stati costretti non sia stato affatto uguale per tutti. Diverso è stato trascorrere la quarantena in condizioni di privilegio e di relativa serenità per l’avvenire, che non in condizioni di povertà e di preoccupazione angosciata per il proprio futuro. Anche su questo Marx ha espresso verità difficilmente confutabili: per coloro che vivono con l’acqua alla gola, una situazione di crisi non è mai un’occasione di rinnovamento, ma una complicazione tragica che può comportare l’annegamento.
Come clinica, al di là della lettura sociologica, avendo lavorato con adolescenti di scuole professionali e di licei, ho constatato la grande differenza di reazione sintomatica al lockdown da parte di ragazzi appartenenti a classi sociali differenti. Paradossalmente ragazzi con situazioni sociali e famigliari difficili hanno attivato grandi risorse relazionali soprattutto nei momenti di didattica online, in cui la scuola diventava per loro un luogo di vita e d’incontro degli insegnanti e compagni, separandoli da un clima famigliare difficile e patologico. Mentre adolescenti frequentanti licei hanno manifestato sintomi d’ansia e angoscia maggiore rispetto all’andamento scolastico della didattica on-line, con maggior ansia rispetto alle prestazioni didattiche e alla preparazione ad esempio per l’esame di maturità. Diversi ragazzi ho seguito e condotto verso l’esame di maturità, un esame inaugurato e raccontato senza l’ultimo suono della campanella, senza la “pizzata” e la gita del quinto anno, un esame sotto copertura on-line e famigliare in un clima difficile per l’adolescente.
Il punto in comune trasversale che ha accumunato l’adolescenza durante tutto il periodo pandemico è stato l’incontro con la scuola attraverso la didattica online, vissuta come uno spazio d’incontro con l’altro in cui potersi narrare e ritrovare meno soli. La didattica on-line, seppur è una didattica senza corpo e dunque poco incisiva sul piano dell’apprendimento, ha tuttavia lasciato i ragazzi meno soli, offrendo loro la possibilità di separazione in un luogo seppur virtuale ma in cui la parola, nonostante l’assenza di corpo, ha comunque svolto la propria funzione simbolica: dare un senso al di là della morte, dell’abbandono e della solitudine.
Da clinici sappiamo come nel periodo adolescenziale si ricerchi profondamente il gruppo dei pari, il bisogno di contatto e il sentirsi appartenere ad una collettività. L’adolescenza è profondamente traumatica in quanto risveglia non solo il corpo fisiologico, ma anche il corpo pulsionale in cui l’irrisolto o le difficoltà dell’infanzia riemergono gettando i ragazzi in un clima d’angoscia e d’abbandono. Emozioni tipiche di quell’arco di vita, che durante il lockdown si sono amplificate negli adolescenti, in assenza di quei ritmi che la quotidianità e la ritualità del suono della campanella imponevano. Così i ragazzi, oltre alle lezioni didattiche, insieme ai quei pochi docenti resistenti al sistema, hanno avuto la possibilità di vivere e desiderare la scuola proprio in quanto mancante.
La didattica on-line con gli adolescenti, nei suoi contro e nei suoi pro, ha permesso di dare uno spazio attraverso il dispositivo tecnologico scolastico, diventando un modo per ritornare a ritualizzare gli spazi legati al sapere, all’incontro con i compagni e con i propri docenti. Ovviamente una didattica senza corpo, ma solamente virtuale può risultare meno incisiva rispetto alla didattica in presenza, ma come psicoanalisti sappiamo bene che a muovere la curiosità, l’incontro, il sapere, è la posizione di desiderio che l’adulto incarna e trasmette attraverso la parola e i suoi gesti.
Dunque se la scuola vuole ripartire, deve ripartire dagli insegnanti e dal suo personale che non possono esser ridotti ad adepti del controllo degli allievi al servizio della massima sicurezza. Gli insegnanti e la scuola dovrebbero aiutare gli alunni ad interiorizzare certe regole civili e sociali, partendo proprio dall’esperienza soggettiva di ogni ragazzo e ragazza vissuta durante il periodo di chiusura delle scuole. Solo partendo dall’ascolto da parte dell’altro significativo, dall’esempio incarnato nel desiderio dell’adulto e dallo spazio per la parola, saranno possibili la rielaborazione di un trauma collettivo e l’interiorizzazione della regola sociale ai fini di un maggior senso di responsabilità e civiltà.
Da psicologa, come fare attivo e pratico nell’istituzione scuola, rinforzerei la costruzione di logiche didattiche che aiutino l’apprendimento partendo proprio del reale traumatico che ha toccato i ragazzi attraverso l’apertura di spazi d’ascolto da estendere all’intera istituzione scuola, dagli allievi, ai docenti, dagli educatori, al personale ATA. Pensare l’istituzione scuola significa ridare voce e pensiero critico partendo dalle minoranze, dal basso delle relazioni, dalla circolazione di differenti discorsi, ma soprattutto ripensando la scuola nella sua funzione di crescita formativa, di pensiero e umana.
Dott.ssa Delia Moraschini, psicologa
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