Queste riflessioni nascono dal bisogno di fare chiarezza intorno ad alcuni aspetti del sapere psicoanalitico, a seguito di alcune dichiarazioni particolarmente faziose e maschiliste che di recente hanno avuto luogo in alcuni ambienti istituzionali. E’ infatti accaduto che un consigliere regionale citasse maldestramente la psicoanalisi come portabandiera di una visione patriarcale, strumentalizzando il sapere per fini partitici.
Le parole sono state le seguenti: <<il padre dà le regole e la mamma accudisce, sono figure essenziali (…) Queste cose si studiano in psicoanalisi>>. Questa dicotomia netta dei ruoli è stata estrapolata fraintendendo il mito edipico freudiano, e per questa ragione, come professionista, vorrei chiarirne il reale senso e approfondirne alcuni punti.
Per comprendere il pensiero psicoanalitico credo sia importante contestualizzare il pensiero di Freud nella propria epoca. Teniamo conto che Freud inventa la psicoanalisi nell‘800, in un’epoca vittoriana, di stampo repressivo, borghese e patriarcale. In questo contesto nasce la psicoanalisi, grazie al dialogo intessuto dal giovane Freud con donne aventi manifestazioni corporee sintomatiche caratterizzate da cecità o blocco degli arti nonostante la sanità medico fisiologica dell’organo. Il vero interesse di Freud era infatti aprire nella concezione medicalizzata dell’epoca un altro tipo di discorso e ascolto. In un certo senso, potremmo anche considerare lo stesso Freud un femminista nei suoi studi, o quantomeno colui che ha de-patologizzato il corpo della donna dal sapere medico, aprendo la psicoanalisi allo studio dell’enigma del femminile e dell’inconscio.
Freud, attraverso il racconto del mito di Edipo spiega i meccanismi pulsionali che investono la psiche del bambino. Il mito di Edipo parla di moti pulsionali legati alla figura d’attaccamento principale che è la madre e vengono attivati con la scoperta della presenza del padre come oggetto d’amore materno. Il padre nella visione edipica è colui che pone l’interdetto legato al divieto dell’incesto tra madre e figlio. Il padre, dunque, viene letto da Freud come una figura che rompe la simbiosi madre-figlio, per far sì che quest’ultimo possa inserirsi nella società interiorizzandone le regole, l’educazione, il sapere etc.
Letto in questi termini, il mito edipico può prestarsi bene come modello patriarcale in cui la donna viene ridotta ad essere merce di scambio, oggetto di mercato tra uomini, destinata alla procreazione, alla cura e alla crescita dei figli in una opposizione tra NATURA, insita nel rapporto madre-bambino, e CULTURA, assicurata appunto dall’intervento separativo paterno. È proprio su questo pregiudizio del campo psicoanalitico che le visioni patriarcali hanno fatto leva, come avvenuto in occasione delle recenti dichiarazioni sopracitate.
Tuttavia, il fulcro della questione all’interno dell’organizzazione famigliare non è la presenza delle figure di mamma-femmina e papà-maschio, una che accudisce e l’altro che dà regole; questo significherebbe ridurre il mito dell’Edipo freudiano ai corpi reali. Ciò che il mito in realtà narra è un discorso e, in quanto discorso, ha a che fare con il simbolico e non con la realtà di mamma e papà in carne ed ossa.
In psicoanalisi infatti, come spiega lo psicoanalista J. Lacan, si parla di funzioni psichiche, di funzioni logiche che il bambino interiorizza attraverso identificazioni alle figure d’amore genitoriali al di là del sesso biologico. Lacan ci parla di funzione materna e di funzione terza in cui quest’ultima può essere rappresentata da un'altra donna, da una nonna, da uno zio o persino da un lavoro. La funzione terza è ciò che calamita il desiderio della madre al di là del proprio figlio. La funzione terza è ciò che permette alla madre di NON ESSERE SOLO COLEI CHE ACCUDISCE I FIGLI ma DONNA soggettivata. In pratica il contrario di quanto viene sostenuto dalle parole delle correnti padronali e patriarcali, che hanno trovato risonanza sui media e sui social in questi ultimi tempi.
La funzione materna non consiste dunque solo nel soddisfare il bisogno del figlio mediante il seno, come la società del consumo vorrebbe, creando ottimi consumatori d’oggetto, ma nell’attribuire al figlio la propria particolarità aprendolo al desiderio singolare. La funzione terza rappresenta invece l’altro sociale, l’altro del linguaggio, l’altro della civiltà ed è la funzione che unisce il desiderio singolare, particolare, all’universale della legge. Non è sicuramente il padre-patriarca, bensì è il terzo che apre al dialogo, all’integrazione del bambino nella civiltà, in una logica non padronale, ma desiderante. D’altronde, come afferma ancora J. Lacan, la perdita di godimento e l’introduzione del bambino nel linguaggio avviene attraverso una serie di separazioni dall’oggetto che la civiltà impone. Non dobbiamo pensare che la donna, in quanto madre, non riesca da sola a soggettivare il bambino, come lasciano intendere visioni patriarcali e totalitarie in cui l’uomo in posizione padronale è colui che ha il compito di “svezzare” il piccolo.
Un altro punto essenziale per comprendere lo sviluppo della psicoanalisi è quello di considerare gli sviluppi successivi a Freud, tenendo in considerazione l’apporto di notevoli psicoanalisti come: Jacques Lacan, il ribelle Carl Gustav Jung, Erich Fromm, Donald Winnicot, Wilfred Bion, ma anche delle donne pioniere della psicoanalisi. Per citarne alcune significative nello sviluppo del pensiero psicoanalitico: le Russe Lou Andreas-Salomè, Sabina Spielrein, Tatiana Rosenthal; le combattenti Emma Eckstein, Margarethe Hilferding; le figlie messe in ombra dai padri: Emma Jung, Anna Freud; le voci dedicatesi all’infanzia: Hermine von Hug-Hellmuth, Melanie Klein, Sophie Morgenstern, Franciose Dolto; le eretiche: Judith Butler e Luce Iragaray; le conquistatrici: Eugénie Sokolnicka, Marie Bonaparte, Helene Deutsch. Donne che hanno contribuito in maniera differente, dalla pratica clinica alla teoria, fondando anche scuole psicoanalitiche di pensiero come quella di Anna Freud o di Melanie Klein.
Il soggetto della psicoanalisi infatti non è tanto l’identità, l’io uomo o donna, ma il soggetto inconscio che si manifesta attraverso ciò che sfugge alla razionalità, come ad esempio sogni, atti mancati, sintomi, lapsus.
Il lavoro analitico è infatti un lavoro intimo, soggettivo, privato, paragonabile al sacro, che avviene all’interno di una relazione transferale tra l’analista e la persona in cura. Il rischio di queste retoriche che tentano di spiegare i meccanismi che muovono le persone rincorrendo le mode e le medesime testate giornalistiche rischiano di ridurre il tutto a queste parole: <<queste cose si studiano in psicoanalisi>>, tralasciando innumerevoli studi teorici di psicoanalisti e psicoanaliste mediante pratiche cliniche legate alla sofferenza intima delle persone.
Ill fraintendimento della narrazione edipica freudiana consiste nel fatto di sovrapporre il concetto della funzione simbolica terza al padre della realtà. Come sottolineato precedentemente, in psicoanalisi si parla di funzioni che non hanno a che fare con il corpo dell’uomo o della donna. Questa sovrapposizione tra simbolico e realtà, comporta una lettura della psicoanalisi e dei suoi concetti simbolici come dati reali culturali e sociali, scivolando così negli stereotipi di genere e nei clichè comuni.
È su questa confusione dei piani che le derive totalitarie con la loro strumentalizzazione non fan altro che alimentare modelli stereotipati di donna/madre a scapito della parità tra esseri umani.
Ancor più grave è la tendenza a legittimare una certa gerarchia tra i sessi, ponendo di fatto le basi di quella pericolosissima cultura i cui esiti più estremi, dalla violenza fisica e psicologica sino al femminicidio, la cronaca odierna ci racconta e, purtroppo, ben conosciamo.
Dott.ssa Delia Moraschini - psicologa