Come la psicoanalisi ci insegna possiamo comprendere quanto accaduto solo studiandone gli effetti, solo a-posteriori potremo dire qualcosa. Per questo motivo prendo la mia parola solo ora offrendo la mia esperienza come giovane psicologa nel lavoro di supporto psicologico ai cittadini della Valle Seriana.
La testimonianza di ciò che è accaduto nella prima fase dell’emergenza sanitaria, può permetterci di affrontare questa seconda fase in un modo differente, con lenti differenti, seppur ciò che accomuna i periodi di marzo e quello attuale, è il fatto che la perdita di un caro non abbia mai un tempo, ma resti congelata nel dolore del trauma. Per questo come psicologa ritengo importante il lavoro di accompagnamento all’elaborazione della perdita, ieri, oggi e domani.
Partendo proprio dall’esperienza clinica passata nella fase di marzo, ciò che in questo articolo vorrei metter in luce sono dunque le narrazioni e le emozioni che hanno accomunato le persone che hanno vissuto un lutto a causa del Corona Virus.
Come professionista opero ad Ancona e dalla mia città adottiva nel periodo di marzo, guardavo sui necrologi della bergamasca, infinite pagine di defunti e ascoltavo discorsi di amici e famigliari impauriti, spaventati da questo sconosciuto virus che irrompeva nei paesi della Valle Seriana. All’oggi vorrei precisare che la situazione e i numeri dei casi nella bergamasca nonostante risulti in zona rossa, sono contenuti. Sicuramente i cittadini hanno tratto dall’esperienza che li ha colpiti a marzo un senso civico di maggior attenzione e cura verso di sé e il prossimo.
Ma a marzo, il virus all’oggi ancora sconosciuto, divampava in particolare nei miei paesi d’origine: Nembro e Valbondione, paesi con perdite di persone sproporzionate rispetto al numero di abitanti. Vedevo così, nella morte di ogni persona, lo sgretolarsi delle mie origini, perdendo ogni giorno pezzi della mia infanzia e della mia adolescenza, soffrendo tremendamente nel non poter essere presente con la mia famiglia vivendo in altra città. Anche se psicologa mi sono trovata emotivamente impreparata dinnanzi a questo trauma collettivo che toccava la mia amata terra, così come all’oggi.
Da questo dolore, però, ho deciso di smettere di star a guardare i monti dal mare e mossa da questa mancanza dell’origine mi sono messa a disposizione gratuitamente con la mia professione nell’ascolto e nella cura delle persone. <<Non avevo altre possibilità per dare un contributo ai miei paesi natii, se non offrendo come professionista il mio ascolto>>.
La maggior parte delle domande di supporto psicologico riguardavano persone aventi avuto un lutto di genitori, amici, compagni e parenti.
I sintomi e le emozioni correlate alla perdita si manifestavano in attacchi di panico con conseguente angoscia e paura di morire, sintomi depressivi di chiusura e perdita del senso della vita, sensi di colpa rispetto alla gestione di una situazione ingovernabile, timore del giudizio dell’altro sociale con sentimenti di forte solitudine e incomprensione.
Spesso mi veniva riferito: <<Chi non lo ha vissuto non può capire>>. Non è facile elaborare infatti il lutto, qualsiasi perdita ha bisogno di un proprio tempo e un proprio dolore, ma sicuramente ciò che accomuna questo tipo di morte da Covid19, è stata la mancanza del corpo e la mancanza del rituale. Quel rituale caratterizzato dai saluti e presenze fisiche in ospedale che accompagnano la persona dalla malattia alla morte, ma anche quel rituale funebre che vela e conduce alla speranza di un aldilà.
Sono inevitabilmente saltate delle tappe fondamentali per la mentalizzazione di quanto è accaduto e ciò che è stato evitato andava ricostruito nel tempo del supporto psicologico.
Penso che ciò che abbia reso veramente difficile la situazione a livello psicologico sia stata questo stato d’allarme che ha imposto pratiche e direttive mediche a scapito dell’umanizzazione del soggetto.
Non è umano, infatti non poter salutare il proprio caro, non è umano non poter più vederne il corpo, non è umano non avere la possibilità di un rituale di raccoglimento, non è umano vedere un sacco nero e ritrovarsi con un’ampolla di ceneri tra le mani. È con questa disumanità del reale del virus che gli psicologi hanno a che fare nell’ascolto dei propri pazienti in questi periodi d’emergenza.
Nel mio lavoro ho raccolto i pezzi e cercato di ridar forma e volto umano a qualcosa di veramente imprevedibile e impensato: la morte di un amore, di un genitore, di un amico e un’amica, di persone storiche nel paese.
I pazienti raccontano i fatti accaduti dallo loro prospettiva, in questa speranzosa e infinita attesa al telefono delle condizioni del proprio caro: <<Ci sono miglioramenti>> <<è stabile>> poi <<La telefonata>>.
Tutto si è svolto in maniera brutale senza quel <<Ti voglio bene>> parola dell’ultimo saluto, per poi ritrovarsi tra le mani un’ampolla di cenere o una bara sigillata senza volto. Mi capitava di chiedere: << Quali sono state le ultime parole che vi siete detti?>> e al telefono percepivo i singhiozzi di un pianto.
<<Come posso asciugare le lacrime attraverso un dispositivo tecnologico?>> mi domandavo.
Anche io mi trovavo senza il corpo, senza la presenza in studio, ma potevo in quel momento far affidamento solo alla parola e alla sua forza nell’incidere sul corpo, nel dargli una nuova forma, un’altra possibilità da quella fisiologica e medica.
Data l’alta traumaticità psicologica del lutto in questo scenario, i pazienti non riuscivano nemmeno a realizzare l’assenza del caro/a sentendosi persi e confusi. Il defunto aleggiava fantasmaticamente nei notiziari mediatici, nei suoni incessanti dell’ambulanza, sui necrologi dei giornali locali, nei sintomi di ogni paziente che ascoltavo.
Così le persone affrante dal dolore hanno iniziato a domandare aiuto allo psicologo: <<Da solo non riesco a uscirne>>. Le persone iniziano a raccontare i fatti successi e le reazioni rispetto ai sintomi del caro: <<Aveva solo un po’ di tosse ma stava bene>>, <<Mia nonna è stata rilasciata con la febbre dall’ospedale>>, <<Ho chiamato il numero regionale a disposizione, ma nessuno rispondeva>>, <<Non sapevo cosa fare, non sono un medico>>. Tutti sentimenti di impotenza e incertezza, ma che non prevedevano l’idea di una tragedia arrivata come fulmine a ciel sereno.
Covid19 ci ha ritrovati nella sua universalità tutti impreparati, colti all’improvviso dinnanzi a qualcosa del reale di un virus sconosciuto. Covid19 fa paura e angoscia perché si annida invisibilmente nelle famiglie e contamina indistintamente dal sesso, dalla razza, dalla religione. Covid19 è il nome universale di una pandemia che trova nella specificità soggettiva del sintomo la parola e il nome di ogni soggetto.
La funzione del mio lavoro come psicologa in questo tempo d’emergenza che all’oggi continua è quella di ricomporre l’immagine traumatizzata del soggetto attraverso la ritualità delle sedute telematiche, condotte in un modo nuovo anche per lo stesso professionista. Ricostruendo la ritualità venuta a mancare, nel lavoro psicologico attraverso la parola il paziente ho preso virtualmente per mano ogni persona e guidata ad affrontare il reale della perdita, aiutando a livello simbolico a rivivere la malattia sino alla costruzione di un posto e un nome <<Da incidere sulla tomba>>. Molti pazienti inizialmente non riuscivano a recarsi al cimitero, non riuscivano a dire la frase <<è morto>>, non ne riuscivano a parlare in famiglia.
Il meccanismo di difesa primordiale che è quello di negarne l’accaduto è stato ampliato proprio da ciò che ha caratterizzato questi tipi di morte: l’assenza totale del corpo. Questo ha reso la presa di consapevolezza psicologica molto più difficile rispetto ad una situazione luttuosa fuori dal periodo dell’emergenza Covid19.
Il mio ascolto come professionista ha dunque permesso attraverso i racconti, gli aneddoti, i ricordi, le particolarità dei propri cari l’elaborazione di una parte del lutto, supportando i soggetti in un percorso di nominazione di ciò che è accaduto, con conseguente riduzione degli effetti sintomatici.
Così con cadenza settimanale tra una seduta e l’altra, in un clima di non urgenza e fiducia, il paziente iniziava a ricordare, muovendosi a piccoli passi in una presa di consapevolezza maggiore di quanto accaduto, rispetto all’amnesia traumatica delle prime sedute.
Questo percorso è stato possibile solo attraverso un legame di fiducia particolare che la psicoanalisi chiama transfert e che ha a che fare più con gli affetti primordiali che con i protocolli.
Nell’esperienza di questo tipo di supporto mi sono affiancata al paziente divenendo un portavoce e un contenitore di una sofferenza indicibile, in un lavoro di elaborazione della perdita. Lavoro doloroso che è consistito nella testimonianza caso per caso di ogni persona impegnata nel dar un nome e narrare la storia di vita del caro, trovando il proprio spazio nell’ascolto e nella parola che cura.
Ogni paziente è così a modo proprio riuscito a rammendare in questo secondo tempo di supporto uno strappo incucibile: lo strappo della morte.
DOTT.SSA DELIA MORASCHINI
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